Bardo Thödol (IL Libro Tibetano dei Morti). Note di una lettura alla luce della fisica moderna

Come l’uomo desidera, così è il suo destino. Brihadaranyaka Upanishad

(articolo di Luis Rivero in HERA Magazine nº 43)

Borges ci ricorda –parafrasando Platone– che il maestro sceglie il discepolo, ma il libro non sceglie i suoi lettori, che possono essere cattivi o stupidi.La prima volta che mi capitò tra le mani un esemplare del Bardo Thödol , non sono riuscito ad andare oltre delle prime pagine. Ci vorrebbero alcuni anni prima che sintesi un bisogno incontenibile di riprendere la sua lettura. E questa è la prima delle impressioni tratte da questo libro enigmatico: il Bardo Thödol si legge quando si è veramente “pronti” per la lettura. Il tema della morte e in particolare di nostra propia morte è generalmente evitato per quanto possibile nella magior parte delle società occidentali. Sebbene la morte è una certezza (forse l’unica certezza che abbiamo), spesso ci rifiutiamo di affrontarla, fino a diventare tabù. Platone afferma nel Timeo–in chiave criptica– che “è difficile scoprire il ‘fautore’ e padre di questo universo, e, una volta scoperto, è impossibile dichiararlo a tutti gli uomini”. Carl Gustav Jung, nel suo commento psicologicoal Libro tibetano dei morti, conclude dalla sua lettura che il ’’datore” di tutte le cose ’’date’’, abita dentro di noi. E questa, credo, è una delle chiavi di comprensione del Bardo Thödol: tutti i fenomeni hanno origine nella mente. Così come pensiamo, così siamo e saremo, nella vita e dopo la morte, perché i pensieri sono “padri” di tutte le azioni.

Da tempo immemorabile, viviamo, moriamo e nasciamo senza che abbiamo memoria di ciò. In questo processo ciclico, il Libro tibetano dei morti sarebbe, se così si può dire, una sorta di manuale di istruzioni per i defunti e i moribondi. Intende essere una guida all’aldilàche copre il periodo di esistenza del bardo, descritto simbolicamente come lo stato intermedio della durata di 49 giorni che vanno dalla morte alla rinascita. Nella tradizione tibetana il testo viene letto vicino al corpo giacente, sussurrato all’orecchio del defunto da un monaco che agisce come psicopompo. Lo scopo è quello di attirare l’attenzione del deceduto sulla possibilità di liberazione in ogni momento e di avvertirlo circa la natura delle sue visioni. Tutto questo secondo la ferma convinzione che la coscienza è immateriale e non scompare con la morte física.

Alcuni insegnamenti del Bardo Thödol e il suo parallelismo con la fisica moderna

Man mano che ci addentriamo nella lettura del Bardo Thödol, capiamo il significato delle parole del fisico Fritjof Capra: «I concetti della fisica moderna mostrano spesso sorprendenti parallelismi con le filosofie religiose dell’Estremo Oriente» (Il Tao della Fisca). Mi propongo quindi di esporre brevemente alcune delle idee principali contenute nel Libro tibetano dei mortie la loro analogia con alcuni concetti della teoria quantistica e principi della fisica moderna. Secondo la filosofia buddista tutte le condizioni, gli stati o i regni di esistenza del samsara, i cieli, gli inferni o i mondi di cui parla il Bardo Thödol sono solo fenomeni. Il samsara, che in sanscrito vuol dire ‘esistenza ciclica’, è per la dottrina buddista la successione di morti e rinascite a cui l’individuo è destinato.

Nel samsara si danno sei regni di esistenza in cui si può rinascere a seconda del karma: il regno degli esseri infernali, quello degli spiriti avidi, quello degli animali, quello degli umani, quello dei semidei e quello degli dei. Tutti questi fenomeni, secondo il Bardo Thödol, sono transitori, illusori o irreali. Esistono solo nella mente di chi li percepisce e non hanno forma esterna. Si afferma inoltre che non esistono dei, demoni, spiriti o creature sensibili.Tutti sono fenomeni che dipendono da una causa: “un anelito o sete di sensazione conforme ad un’esistenza instabile nel samsara”. Finché questa causa non sarà superata, come diceva Socrate, “ad ogni nascita seguirà una morte e ad ogni morte una nuova nascita”, e così via fino a raggiungere l’Illuminazione che interrompe la ruota del samsara.

Secondo il Bardo Thödol l’esistenza post mortemè una continuazione dell’esistenza fenomenica del mondo umano, poiché la coscienza non scompare con la morte fisica. La natura dell esistenza tra la morte e la rinascita in questo o in un altro mondo è determinata dalle azioni precedenti, cioè dal karma. Si tratta in un certo senso di uno stato prolungato di apparenza onirica, quello che potrebbe chiamarsi «una quarta dimensione dello spazio» (come sottolineano alcuni studiosi), pieno di visioni allucinanti che sono il risultato del contenuto mentale del percettore.Queste possono essere felici e di aspetto celeste, se l’individuo ha accumulato un buon karma, o dolorose e di aspetto infernale, se ha un cattivo karma.[Per la teoria della relatività lo spazio non è tridimensionale e il tempo non costituisce un’unità separata. Entrambi sono strettamente correlati e formano una continuità quasi tridimensionale «spazio-tempo»].

Le scoperte della teoria della relatività e della fisica atomica (che alla fine sfociarono nella formulazione della teoria quantistica) vennero a cambiare il panorama della fisica, sconvolgendo la concezione newtoniana del mondo, cioè la nozione di spazio e tempi assoluti, le particelle solide elementari, la natura strettamente causale dei fenomeni fisici…

Un’altra caratteristica dello stato intermedio, secondo il Bardo Thödol, è che non tutti i defunti sperimentano visioni o fenomeni identici.Ogni individuo penserà secondo ciò che gli è stato insegnato.In tal senso, i pensieri sono come semi che germinano nella mente fino a dominare completamente il contenuto mentale dell’individuo in forma di credenze o archetipi.Di conseguenza, per un buddista, un indù, un musulmano, un ebreo o un cristiano le esperienze del bardo saranno diverse.Le forme di pensiero di un buddista o di un induista, come in uno stato onirico, alimenteranno le visioni «a immagine e somiglianza» delle divinità del pantheon buddista o induista;un musulmano si ricreerà nelle visioni del paradiso islamico descritto nel Corano; o quelle di un cristiano corrisponderanno al cielo, al purgatorio o all’inferno.Insomma, queste visioni dipendono dal contenuto mentale di ogni individuo.In altre parole, lo stato post mortemè molto simile allo stato onirico, e i sogni sono una replica della mentalità di cui sogna.Secondo Evans Wentz, il Bardo Thödol sembra basarsi su dati di esperienze umane fisiologiche e psicologiche e considera questo stadio nell’aldilà come un problema psicofisico, e quindi essenzialmente scientifico.Ciò che il percettivo vede nel bardo è il suo proprio contenuto mentale.Dalla fisica quantistica si afferma che non possiamo vedere né capire ciò che non è nel repertorio dei nostri pensieri e paradigmi sul mondo.In altre parole, la coscienza umana emerge in primo piano da mero epifenomeno psichico a causa determinante dell’esistenza dei fenomeni manifesti.Quando si dice che l’esistenza post mortem è una continuazione dell’esistenza fenomenica emersa dal mondo umano, si afferma che l’esperienza del bardo è segnata dagli stessi archetipi o paradigmi appresi durante l’esperienza vitale.«Come si insegna ad un uomo, così sarà quello che pensa», nella vita e dopo la vita.Questo spiega perché le visioni che affermano di aver sperimentato i mistici cristiani coincidono con l’immagine del Dio Padre seduto al trono della Nuova Gerusalemme, l’intero scenario biblico e immagine: Vergine, santi, angeli e arcangeli;come un musulmano potrà assistere alla visione del paradiso, del profeta o degli angeli; o un amerindio potrà “vedere” la Terra Felice della caccia.Anche un ateista sperimenterà le sue particolari visioni nel bardo, secondo il suo proprio “credo” ed archetipi mentali.

D’altra parte, la nascita nel mondo umano diventa inevitabile, sia direttamente dal bardo o da qualsiasi altro mondo (paradiso o inferno) a cui abbia portato la bilancia karmica, a meno che non si raggiunga l’Illuminazione.L’Illuminazione avviene captandol’irrealità dell’esistenza (del samsara), cioè comprendendoche tutto è un’illusione.È possibile raggiungere questo stato in vita, al momento della morte o durante il bardo, così come in certi regni non umani.

Per fare questo passo è importante, sempre secondo il Bardo Thödol, l’istruzione nello yoga, nel controllo dei processi mentali per concentrarsi sul raggiungimento della Retta Conoscenza e la guida di un guru.Questa versione dei diversi “mondi o regni” di esistenza ha una sorprendente somiglianza con l’idea di “universi paralleli” della fisica quantistica.

Un altro concetto fondamentale del buddismo tibetano è «la coscienza di unità della totalità delle cose, chiamato dharmadhatu[‘universo’]».Credere che concetti astratti di «cose» e «eventi» separati siano una realtà è pura illusione.Questa unità fondamentale dell’universo non è solo un elemento centrale dell’esperienza mistica dei grandi maestri orientali, ma risulta anche una delle scoperte della fisica moderna.Sebbene apparente a livello atomico, si manifesta con maggiore chiarezza nel mondo delle particelle subatomiche.La fisica quantistica sostiene il concetto di interconnessione di tutto ciò che esiste in natura.La cosiddetta interpretazione di Copenhagen, sviluppata da Bohr e Heisenberg, dimostra con precisione in che modo la teoria quantistica implica un’interconnessione essenziale in tutta la natura.

E non solo a livello subatomico, ma il sistema macroscopico forma anche un insieme unificato e il concetto di «oggetto separato e osservato» non è più valido.[Il Nobel per la fisica Erwin Schrödinger parla di entanglement quantistico  (o correlazione quantistica), un fenomeno in cui lo stato di due o più sistemi fisici dipende dallo stato di ciascuno dei sistemi, anche se questi sono spazialmente separati].

Un altro insegnamentoche si può trarre dal Bardo Thödolè che gli esseri coscienti nello stato intermedio, al di là della “pulsione karmica”, possono scegliere la forma della loro prossima reincarnazione, anche dove nascere: il paese, la cultura, la famiglia…Si dice che gli esseri più elevati spiritualmente potranno scegliere uno dei regni di esistenza superiore (regno dei semidei o quello degli dei), con la possibilità di liberarsi dal samsara in qualsiasi momento.Per quanto riguarda la «possibilità di scelta» il fisico Amit Goswami fa notare che abbiamo nella vita molteplici probabilità dispiegate come onde di probabilità (di un elettrone).Ciò ci pone di fronte a diverse opzioni reali come le onde di probabilità di Schrödinger e queste probabilità cessano di esistere quando proiettiamo le nostre aspettative, che si limitano ad una sola possibile.Il dottor Stuart Hameroff va oltre affermando che “ogni pensiero cosciente può essere considerato come una scelta, una sovrapposizione quantistica che collassa in una scelta”.[Questo ci ricorda la possibilità «di selezionare la porta uterina» di cui parla il Sidpa Bardo(una delle fasi dello stato intermedio descritto nel Libro II del Bardo Thödol), in cui la coscienza «sceglie» dove nascere e scegliere i genitori].La fisica moderna sembra suggerire che ogni volta che osserviamo il mondo, ad un certo livello della realtà stiamo provocando un collasso della funzione d’onda.Un collasso che trasformerà un’onda di infinite possibilità in qualcosa di concreto e materiale. E questo ci rende creatori, «fautori» o «datori» della nostra stessa realtà, come affermava Jung.L’osservatore crea il collasso della funzione d’onda in una determinata direzione e così partecipa alla creazione della realtà.Il momento in cui un’onda di probabilità si trasforma in materia è quello che i fisici chiamano collasso della funzione d’onda.Sarebbe come se adesso dietro di lei non ci fosse nulla e proprio nel momento in cui si gira per guardare, tutto prende forma e si «materializza».Ciò significa che quello che c’è dietro di lei in questo momento esiste solo come possibilità.In un certo senso, tutto questo è molto simile a quello che afferma il Bardo Thödol che tutti i fenomeni sono alla loro origine nella mente.”Sebbene la maggior parte della scienza occidentale consideri questa questione [l’immortalità della coscienza] una favola, la scienza tanatologica dimostra, afferma lo psichiatra Stanislav Grof, che gran parte di ciò che propone nel Bardo Thödol è pertinente”.Grof si basa su studi di esperienze vicino alla morte in cui quanto detto dalle persone “riportate in vita” ha potuto essere verificato. Narrano che la coscienza abbandona il corpo in modo molto simile a quello descritto nel Bardo Thödol. Suggestiva lettura, dunque, che può suscitare l’interesse o la curiosità sia di coloro che affrontano per la prima volta l’argomento sia di coloro che sono attratti dalle tradizioni e dalla filosofia orientali, e che al di là delle proprie fedi può contribuire a smontare quel tabù che è il tema della morte, e cominciare a vederla da una prospettiva diversa.

Con la vara que mides, serás medido 

Este refrán rememora la máxima evangélica que advierte que «con la medida con que midáis, se os medirá y aun con creces»(Marcos 4,24); que en parecidos términos se repite en Mateo 7,2 («Porque con el juicio con que juzguéis seréis juzgados, y con la medida con que midáis se os medirá»). De donde probablemente se incorpora al refranero popular castellano. Al menos desde el siglo XVI encontramos referencias documentales en la que se citan estos pasajes bíblicos, si bien no existe constancia de cuándo se generalizó su uso, pero en cualquier caso el vulgo, en un determinado momento, lo hizo suyo en forma de proverbio popular que en castellano se expresa: «con la medida con que midáis, seréis medidos» y que en varias y parecidas versiones existen en otros ámbitos lingüísticos del entorno cultural del español (italiano, francés, portugués…). Pero la variante que ha tomado carta de naturaleza en las Islas es la misma que ha sobrevivido también en algunos ámbitos del español de América y que dice: «Con la vara que mides, serás medido».   

«Vara» –dice el DRAE– es la medida de longitud que se usaba en distintas regiones de España con valores diferentes que oscilan entre 768 y 912 milímetros. Asimismo, se le dice «vara» a la barra de madera o metal que tiene la longitud de una vara y sirve para medir. Con mayor precisión en cuanto a su equivalencia con el sistema métrico decimal, el Diccionario de americanismosla define como una medida que, convencionalmente para algunos países de América, tiene un valor 835,9 mm. En las islas, la aplicación de esta medida de longitud ha desaparecido o, acaso, ha quedado relegada a un uso marginal, y, por ende, el empleo del término «vara» se ha perdido y tiene solo un valor testimonial.  La equivalencia de esta medida de longitud en Canarias varía, dependiendo de las fuentes de referencia y zonas de las islas, de 835, 842 o de 880 mm., si bien es probable que al tratarse de un método de medición tradicional no exista un criterio unánime. De manera que puede suceder como con las fanegadas, las fanegas, los celemines y los cuartillos, todas estas unidades de superficie agrícola tradicionales y que tienen distinto valor en cada isla e incluso pueden variar por zonas dentro de una misma isla. Más allá de algunas referencias que podemos encontrar en textos y documentos antiguos, casi nadie habla hoy de varas como medida de longitud. Lo encontramos en el Diccionario de Historia Naturalde Viera y Clavijo que menciona esta medida en la descripción de algún ave marina o al referirse a la altura de algunas especies arbóreas (como el «garzoto» que «suele crecer cinco o seis varas»); o el mismo Guerra en su Contribución, cuando describe el «balaco» o «balángo», una planta que crece espontánea entre los cultivos, «que tiene un tallo alto, a veces de hasta dos varas». Por tanto, la voz «vara» refiérese al palo de madera de un largo que podría variar según la costumbre del lugar y que sirve para medir longitudinalmente. Se trata de un arcaísmo del castellano que ha sobrevivido en la forma en que se expresa el dicho comentado, tanto en Canarias como en algunos ámbitos del español de América. El verbo «medir» se aparta de su sentido más habitual de determinar la dimensión física de algo, ya sea en altura, longitud, superficie o volumen. Y guarda un sentido figurado que en el contexto de la frase puede intercambiarse por juzgar, criticar, maltratar, castigar, punir, denigrar, faltar al respeto, vilipendiar. La expresión puede ser proferida como advertencia, reproche o admonición ante un comportamiento que se considera injusto, severo o incorrecto. La enseñanza que trasmite el dicho es que como mismo alguien se comporta con los demás, así será tratado y, por tanto, conviene mostrar respeto y generosidad hacia las personas, si se quiere que los demás sean condescendientes. En determinadas situaciones vaticina algo que sucederá y que, a veces, puede convertirse en velada amenaza o maledicencia; o bien puede ser considerado una premonición que augura un resultado retributivo como consecuencia de un comportamiento consciente. De lo que se viene a inferir subliminalmente que nuestras acciones, «buenas» o «malas», suponen siempre onerosos efectos, una repercusión «kármica», por así decirlo, de los actos ejecutados en relación con nuestros semejantes. En definitiva, como señalan otras sentencias afines: «No juzgues, y no serás juzgado», «lo que no quieres para ti no lo quieras para otro/mi» yno desear nunca el mal ajeno porque «el que la hace, la paga», que supone una singular variante popular del «ojo por ojo…».  

El que solo se ríe, de sus maldades se acuerda

Publicado en el suplemento de Cultura de La Provincia/Diario de Las Palmas del sábado 21 mayo 2022//

Decía Henri Bergson que la comicidad es un rasgo propiamente humano. La afirmación nos lleva a admitir que la risa es una de las pocas manifestaciones que nos distinguen de otros animales. No obstante, la aseveración del filósofo francés no puede ser considerada en términos absolutos, ya que desde la neurociencia se considera que existen otros animales con la capacidad de reír. Esto es lo que parece suceder con algunas especies de primates, con los perros o con las ratas, entre otros mamíferos. Pero si la risa no es un atributo exclusivo de Homo sapiens,tampoco lo es el lenguaje como sistema de comunicación verbal articulado de manera más o menos compleja sobre la base de códigos sonoros. Mediante el uso de sus propias voces, los animales pueden alertar de una presencia hostil, acudir a una llamada de auxilio, identificar una situación fuera de lo común, compartir alimentos, informar sobre una fuente de suministro de comida, emitir señales de reclamo para el apareamiento y comunicarse de diferentes maneras tendiendo a realizar toda una serie de actos vitales. Incluso, algunas especies de mamíferos, como los delfines, parecen poseer códigos verbales y gestuales que forman parte de un complejo sistema de comunicación. Así las cosas, y excluida la observación de comportamientos inteligentes como factor exclusivamente humano, la diferencia radicaría en la magnitud y cualidad de estas capacidades con las que aventajamos a otras especies (esto es, comportamiento inteligente, complejidad del lenguaje y capacidad de reír). Si bien el hombre no siempre observa un comportamiento inteligente que lo haga velar por su propia supervivencia, sino más bien da muestras de una insensatez supina, podemos convenir que la facultad de risibilidad asociada al uso de un lenguaje de mayor complejidad es una manifestación fundamentalmente humana. Dicho de otro modo, las toninaspodrán mostrarse todo lo inteligentes que quieran, incluso reír como niños mientras juegan chapoteando en el agua, pero no me las imagino contando un chiste a las puertas de un velatorio y descojonarse de la risa, cosa que sí es capaz un sapiens. Y esta es una de las características que nos distingue de otros seres vivos: que somos capaces de articular un diálogo mental que en determinados parámetros culturales puede provocar una carcajada por absurdo y disparatado que parezca. 

El psicólogo Roberto Provine afirmaba que la risa es una actividad natural y social que tiene lugar cuando estamos en contacto con otra gente y que no es un fenómeno aislado, «ya que está íntegramente relacionado con el habla, el lenguaje y la consciencia». Sin embargo, la literalidad del dicho supone una excepción a tal aseveración por cuanto la risa es también una manifestación que puede ser provocada por un pensamiento cuando estamos solos, aislados, sin entrar en contacto con nuestros semejantes. ¿Quién no ha sido sorprendido alguna vez o se ha sorprendido asimismo riendo(se) solo? Cuando nos reímos estando solos es porque hilvanamos un discurso mental que recrea una situación que nos resulta cómica y que ha podido sucedernos o podrá darse en la vida real. Por ejemplo, cuando reconstruimos imaginariamente la broma que gastamos a un amigo o a un compañero de trabajo, mientras caminamos por la calle o vamos conduciendo nuestro coche. Esta situación verosímil (junto con la risa en sueños) es probablemente el único momento en que reímos sin estar en contacto con la gente. 

El proceso de «observación-constatación-conclusión» por el que se originan los dichos y refranes hace que sobre la base de este método el vulgo haya elaborado este aforismo que, con agudeza psicológica, podríamos decir, establece un juicio cuyo significado se asocia a las travesuras: «el que solo se ríe, de sus maldades se acuerda». En el que el acto de «reírse solo» nos lleva automáticamente a una conclusión que nos estamos acordando de nuestras «maldades». Donde la voz en plural «maldades» tiene un sentido laxo que se acerca más al significado de ‘trastada’, ‘burla inocente’, ‘mataperrería‘ generadas por los pensamientos de proyección futura o recuerdos de situaciones ya acaecidas, cómicas o graciosas que, en todo caso, no tienen malicia alguna. El dicho es usual en Canarias y en otros ámbitos del español en América y se emplea como «admonición» menor que pone al descubierto una «baladronada» (comportamiento propio de un «baladrón», persona inquieta, traviesa, pillo, trasto, buena pieza). Así cuando alguien es sorprendido riéndose solo y sin motivo aparente, entonces se establece esta presunción de que seguramente se estará «divirtiendo» con sus propias trastadas. Entonces se le puede reprender con un «¡Ahbaladrón, de qué te estarás acordando!». 

Echando días pa(ra) (a)trás

Suplemento de Cultura de La Provincia/Diario de Las Palmas sábado 28 mayo 2022//

Mi amigo Alberto B., taxista jubilado de Las Palmas, cuando le pregunto que cómo anda, me suele responder: «Nada, aquí, echando días pa(ra) (a)trás». Se trata de una frase hecha que forma parte de un gerontolenguaje, cuyos vestigios podemos encontrar con frecuencia en el español hablado en Canarias. De ello se desprende un mensaje poco entusiasta de quien se conforma con contar los días que pasan como si ya no fuera «dueño de su tiempo», sino mero mandatario encargado de acumular las horas, como si hubiera iniciado la cuenta atrás de los días de existencia terrena que le restan. La locución «aquí, echando días pa(ra) (a)trás» introduce además del elemento temporal, un componente de referencia espacial que viene marcado por el «aquí» (‘en este lugar’), reafirmando la ubicación física en relación con la temporalidad. «Echar […] pa(ra) (a)trás» tiene el sentido de ‘pasar el tiempo’, ‘ir tirando’, ‘botar’, ‘desperdiciar’, ‘desaprovechar’, ‘dejar pasar’. Los «días» son una magnitud temporal, ‘unidades de tiempo’ que se cuentan como los números tachados en el almanaque que cuelga sobre los azulejos de la cocina, como las horas marcadas por el palpitar implacable del reloj biológico por el que estamos sincronizados con la gran rueda cósmica. La frasecita del amigo Alberto, como puede intuirse, tiene su enjundia y nos lleva necesariamente a una reflexión a vuelapluma sobre el tiempo y el paso del tiempo. Cuando se habla del tiempo cronológico se pueden advertir que la subjetividad o la objetividad de este fenómeno, así como la «instrumentalización» que hacemos de él (como si se le redujera a la condición de objeto material), forman parte de un constructo que no podemos concebir si no es en relación con nuestra propia existencia. La «objetivación» es también un modo de dar una identidad personal a la idea de «tiempo», por ejemplo, cuando aseveramos que «el tiempo todo lo cura», estamos reconociéndole la condición de «entidad sanadora». Cuando decimos «tengo o no tengo tiempo», lo estamos haciendo «nuestro», instrumentalizándolo, y hasta lo podemos «patrimonializar» cuando afirmamos que «el tiempo es oro». O cuando decimos «todavía estoy a tiempo» o «dar tiempo al tiempo», lo «objetivamos» y nos separamos de él. Lo mismo que cuando exclamamos: «¡Ha pasado mucho tiempo!» o «¡cómo pasa el tiempo!», expresiones aparentemente neutras que guardan cierto grado de objetivación ya que presentan el tiempo como juez implacable. Pero el paso del tiempo depende de cómo lo percibimos, lo que no deja de ser una apreciación subjetiva y objetiva a la vez. Subjetiva en cuanto depende del punto de vista del sujeto perceptor y objetiva desde la perspectiva de lo observado, que existe realmente fuera de quien lo percibe. El tiempo pasa de manera distinta para cada uno de nosotros, como si en lugar de que el tiempo «pasase por nosotros» (lo que traslada la imagen del tiempo como un fenómeno ajeno y exógeno) fuéramos nosotros quienes «pasáramos por él». Lo que le imprime un sentido ‘relativo’ (‘no absoluto’), de percepción subjetiva, como si fuese un elemento del paisaje que contemplamos según nos movemos y según la actividad que desempeñemos. Esto puede explicar por qué mi amigo Alberto tenía la sensación de que el tiempo pasaba más despacio durante las largas horas de espera en la parada y más rápido, cuando «le salía un viaje» al aeropuerto, aun cuando el tiempo marcado por el reloj fuese el mismo.   Quizás por las distintas percepciones del paso del tiempo, se le atribuyan metafóricas «serventías», las «servidumbres del tiempo» que dejan su impronta en la memoria y sus huellas en forma de arrugas en la frente, como señales evidentes de un recorrido por la vida y que lo mismo nos puede convertir en sabios que reducir a la condición de esclavos. Así las cosas, la locución «aquí, echando días pa(ra) (a)trás», introducida por un gerundio («echando»), nos sitúa en una posición en el mundo («aquí») y frente al tiempo que pasa inexorablemente, sí, pero que también podemos hacer que pase de otro modo, más provechoso y placentero. Y es que «a estas alturas de la vida» no se puede esperar otra cosa. 

El diablo está en los detalles


Luis Rivero en La Provicia/DLP 11 de mayo 2022.

Un episodio poco conocido entre los antecedentes de la guerra de Irak  (2003-2011) fue la decisión del gobierno iraquí, anunciada en noviembre del 2000, de convertir en euros el fondo iraquí del petróleo. A la sazón estaba en marcha el programa de las Naciones Unidas Petróleo por alimentos que permitía aliviar en parte los efectos que sobre la población tenían las sanciones impuestas al Estado iraquí tras la invasión de Kuwait en 1990. En la práctica, Irak podía seguir vendiendo una parte de su petróleo para la adquisición de alimentos, medicinas y satisfacer otras necesidades básicas. Si bien parte de los ingresos obtenidos por la venta del petróleo eran destinados al resarcimiento de EE. UU. por los costes ocasionados en su intervención en la guerra de 1990, el resto de los ingresos iban al fondo de titularidad iraquí que era gestionado por la ONU. Y obviamente la venta del petróleo se venían efectuando en dólares como era práctica común en el comercio internacional. La decisión de reconvertir la divisa de pago de dólares a euros resulta de transcendental importancia para entender las verdaderas razones que motivaron el ataque de EE. UU. y otras potencias a Irak en 2003. Este «detalle», sin embargo, pareció ser ignorado por la prensa occidental (con la excepción de un par de medios franceses que se hicieron eco de ello). Los efectos de esta medida sobre la moneda norteamericana no se hicieron esperar en el mercado internacional de divisas. Tras el anuncio hecho por Sadam Husein, el dólar se desplomó a un histórico 0,85$ frente al euro. De modo que el asunto empezó a preocupar a la Casa Blanca. Pero el problema –quizás– no era tanto las pérdidas inmediatas que suponían la conversión de los 65 mil millones de dólares que administraba el fondo iraquí del petróleo, sino que cundiera el ejemplo iraquí entre otros países miembros de la OPEP. Y efectivamente, Indonesia, Venezuela, Rusia e Irán comenzaron a considerar la posibilidad de diversificar las divisas en la venta de petróleo. El temor fundado de Washington a que se desatara una auténtica guerra de divisasque hiciera peligrar el estatus del dólar en el comercio internacional, según algunos analistas, sería determinante para la intervención militar posterior. Dicho de otro modo, y a falta de argumentos más convincentes que las misteriosas «armas de destrucción masiva», la exclusión del dólar en las transacciones del petróleo iraquí estaría muy probablemente entre las razones de fondo del ataque a Irak. De hecho, uno de los primeros efectos de la invasión anglo-americana fue la revocación del programa Petróleo por alimentosy la reconversión del fondo iraquí del petróleo, de nuevo, a dólares.

A finales de 2005, el gobierno del Irán, a través del entonces presidente Ahmadinejad, anunció la puesta en marcha de una bolsa de contratación de petróleo, gas y otros derivados en la isla de Kish (en el Estrecho de Ormuz). La bolsa operaría online  para todo el mundo y la novedad principal era que excluía el pago en divisa norteamericana, ya que solo se podrían realizar transacciones en euros y otras divisas nacionales. Hay quienes vieron en este «detalle» otra declaración deguerra de divisas, esta vez por parte de IránLo cierto es que la apertura de la Bolsa petrolera iraní, prevista para marzo de 2006, fue aplazada sine die“debido a problemas técnicos”, según el Ministerio del Petróleo de Irán. Hay quienes piensan, sin embargo, que fue la creciente tensión generada entre Estados Unidos e Irán lo que motivó el aplazamiento indefinido de su puesta en marcha. La Bolsa de la isla de Kish se inauguró finalmente en febrero de 2007 y en diciembre de ese mismo año Irán informó que había convertido todos sus pagos  por la exportación de petróleo a monedas distintas al dólar. La tensión entre ambos países no ha cesado desde entonces. 

En noviembre de 2009 el Banco Central iraní hace públicos los beneficios obtenidos por su decisión de deshacerse de los dólares existentes en sus reservas de divisas y sustituirlos por la moneda europea.Aunque los medios occidentales parecen seguir ignorando o no dándole la trascendencia que realmente tienen ciertos «detalles» menos visibles, parece innegable que en el contencioso entre EE. UU. e Irán está latente una solapada guerra de divisasque ha puesto en jaque al imperio del dólar. La creación de la bolsa petrolera iraní puso fin al monopolio del petrodólar en el mercado del crudo. Como mismo sucediera en el año 2000 a raíz de la decisión de Sadam Husein de convertir en euros el fondo iraquí del petróleo, se especuló que el pago de transacciones del petróleo iraní en euros (y otras divisas) en lugar del dólares podría causar una reacción en cadena entre consumidores y productores de petróleo que lo comercializaran en euros u otras divisas distintas al dólar. 

         En diciembre de 2015, el entonces primer ministro ruso Dimitri Medvédev invitó a los socios de la Organización de Cooperación de Shanghái (OCS) a unirse a la iniciativa rusa de realizar las operaciones financieras en monedas nacionales. En resumidas cuentas, se trataba excluir el uso del dólar en las transacciones financieras. Como telón de fondo de esta medida aparecen las «sanciones» que se vienen sucediendo contra Rusia desde el 2014 hasta llegar a 2022, en que, a raíz de la intervención militar en Ucrania, se intensifica la batería de medidas para intentar ahogar la economía rusa. [«Sanciones»  que, paradójicamente, no dejan de ser una auténtica autoflagelación para Europa, al amenazar con la carestía de los combustibles y materias primas, con una inflación galopante y hasta hacer peligrar el suministro de gas ruso].

A raíz de las últimas «sanciones»contra Rusia, algunos bancos rusos han quedado excluidos de la red de pagos internacionales SWIFT, con las lógicas consecuencias sobre las transacciones internacionales. Para tratar de paliar los efectos de esta medida China, Rusia y los socios de la Comunidad Económica Euroasiática (que agrupa, además de Rusia, a Bielorrusia, Kazajastán, ‎Kirguistán y Tayikistán) trabajan en la creación de un sistema de pagos internacionales alternativo que podría diseñar un nuevo escenario en el sistema financiero internacional en el que el yuan chino tendría un papel relevante y que pondría fin a la supremacía del dólar estadounidense como moneda de reserva mundial y de las transacciones internacionales.

En este escenarioel gobierno ruso, en una decisión táctica que trata de amortiguar el peso inmediato de las «sanciones», ha exigido a los clientes de los países «hostiles» a pagar la compra de gas en rublos, en lugar de  euros o dólares como venía siendo habitual. La iniciativa –según algunos analistas– parece más un intento de incentivar la demanda de rublos entre los clientes del gas ruso en los mercados internacionales de divisas, lo que permitiría una revalorización de esta moneda (piénsese que el rublo llegó a depreciarse respecto al dólar hasta un 50% a raíz del conflicto). [Si así fuera, la medida ha surtido un efecto inmediato, el pasado 23 de marzo,  a raíz del anuncio efectuado por Vladimir Putin, el rublo se apreció en el mercado de divisas un 8% respecto al dólar]. Sin embargo, la decisión no parece aislada ni novedosa, sino que está en la línea de la política impulsada por Rusia desde el 2015 o incluso desde 2009 se viene trabajando en propuestas similares en el seno de los llamados BRIC (que agrupa a Brasil, Rusia, India y China). El Banco Central de Rusia señalaba que en enero de 2022 el peso del dólar en sus reservas de oro y divisas era del 16%, una cifra inusualmente baja. Sin embargo, esta tendencia a deshacerse de la divisa norteamericana en sus reservas parece en aumento en todo el mundo. En el tercer trimestre de 2021 la participación de la divisa estadounidense en las reservas internacionales del mundo era de un 59% frente al 71% de principios de 1999, es decir, un 12% menos en los últimos 22 años [según Reuters]. Otro dato indicativo es que el pasado mes de marzo, China se deshizo de bonos del Tesoro norteamericano por un valor de 20.000 millones de dólares.

En medio de lo que a todas luces es una nueva guerra de divisasen la que a medida que se intensifican las sanciones impulsadas por EE. UU. contra otros países, como Irán (desde 2006) y Rusia (desde 2014), avanza la desdolarización de la economía mundial por la conversión de reservas de divisas y pagos en las transacciones internacionales en monedas distintas al dólar estadounidense. A esta progresiva desdolarización contribuirá sin duda el bloqueo al acceso de Rusia a sus reservas internacionales de divisas, pues con ello –como afirman algunos analistas– se está enviando un mensaje a todos los Estados soberanos de que no pueden considerar que estas reservas de dinero sean realmente suyas en caso de tensión o conflicto. Dejaría de tener sentido que los gestores de las reservas mundiales guarden dólares en sus depósitos por seguridad que podrían ser incautados o bloqueados cuando más lo necesitasen sus depositantes. Como ya sucedería con los talibanes en Afganistán en 2021 cuando se vieron privados del acceso a sus reservas de divisas, y ahora con Rusia. La incertidumbre de los bancos centrales de los Estados soberanos de no saber si pueden disponer de sus reservas en dólares podría animar a estos a diversificar su cartera de divisas y a abandonar progresivamente el dólar.

En un escenario hipotético en el que el dólar tenga un papel cada vez menos relevante en los mercados internacionales, incluso en el que EE. UU. tuviese que adquirir euros o yuanes (u otras divisas) para comprar petróleo o pagar sus importaciones podría provocar el colapso de la economía norteamericana con riesgo de una depresión sin precedentes. Estados Unidos ha gozado hasta ahora de una posición privilegiada en cuanto a su déficit ya que puede imprimir moneda para financiarlo gratuitamentesin grandes riesgos. No sucede lo mismo en los países que se endeudan en dólares para financiar su déficit. Pero hay quienes piensan que este privilegio podrá subsistir mientras sus socios comerciales sigan aceptando dólares como medio de pago. Y he aquí otro «detalle», las compras de bonos del Tesoro por parte de inversores extranjeros han disminuido notablemente en las últimas décadas. Si además se considera que otros países se han deshecho de sus reservas en dólares, el problema empieza a ser serio. Ya desde el pasado mes de abril, China paga en yuanes las importaciones de carbón, petróleo y gas rusos. En marzo, Arabia Saudí, tradicional aliado de EE. UU., negociaba con China el pago en yuanes por la venta de su petróleo. La República Popular compra el 25% del crudo que exporta Arabia Saudí, lo que supondría otro duro golpe al corazón del imperio del dólar. Esto sin considerar que China continúa siendo el principal acreedor de bonos del Tesoro estadounidense, una auténtica espada de Damocles que pende sobre la economía norteamericana.

Hasta ahora, EE. UU. no se ha atrevido a intervenir directamente en Ucrania. Incluso descartó la posibilidad de enviar tropas para repatriar a los ciudadanos estadounidenses afincados en aquel país y en febrero ordenó la retirada  de los instructores militares allí destacados. Rusia y EE. UU. son dos fuerzas antagonistas que mantienen un frágil equilibrio: el temor y respeto de uno frente al otro por el poderío militar que representan es una de las razones por las que hasta ahora se haya evitado el enfrentamiento directo. En definitiva, practicando lo que durante la guerra fría se denominó la «estrategia del terror».

Un hecho que podría romper este equilibrio es que en medio de las crecientes tensiones cristalizara un nuevo orden monetario impulsado por Rusia y China, al que se sumen otras naciones y que amenace con el abandono de cada vez más países del dólar como monedad de reserva. Las dificultades o la imposibilidad del Tesoro norteamericano de seguir estampando dólares como forma de financiar su déficit podría ser un lastre para el incremento y mantenimiento del gasto militar. La cuestión es hasta cuándo está dispuesto  EE. UU. a aguantar esta frágil situación.

Uno de los «detalles» que hay detrás de la escalada del conflicto de Ucrania es la guerra de divisasque se está librando y que pone en peligro la hegemonía del dólar en la economía mundial. Esto abre el debate planteado por algunos analistas de si el privilegio del dólar como moneda de reserva internacional puede estar financiado su posición como superpotencia o si los EE.UU. están valiéndose de su poder militar para mantener el estatus del dólar como moneda de reserva. Y aquí surgen varias cuestiones: ¿Estarían los EE. UU. dispuestos a perder los privilegios mantenidos hasta ahora de financiar su déficit estampando dólares? ¿Y si la pérdida de este privilegio llevase efectivamente aparejada la imposibilidad de incrementar su gasto militar que reasegure su posición de superpotencia? Si así fuera, la política de «sanciones» contra Rusia puede revelarse de una torpeza supina porque, además de castigar sobre todo a la población europea, por efecto bumerang, erosiona la dolarización de la economía mundial con una clara pérdida de poder del billete verde. Se hace difícil entender cómo se pueden adoptar medidas sancionadoras que hacen un daño incalculable sobre todo a las economías europeas y de los países emergentes. ¿Torpeza, error de cálculo o error calculado?  ¿Acaso se pretende crear el caos para que a partir de un escenario bélico de dimensiones mundiales reconstruir sobre los escombros un nuevo orden mundial como sucedió tras la II Guerra Mundial? Quizás para responder a estas preguntas conviene leer entrelíneas y repasar los «detalles» de la historia que pasan inadvertidos porque, como se suele decir, «el diablo está en los detalles».

¡Te conozco, mascarita!

Publicado en los suplementos de Cultura de La Provincia/DLP y El Día/La Opinión de Tenerife … 

Las máscaras son casi tan antiguas como el hombre. Pintarse la cara, deformarla o disfrazarla parecen formar parte del comportamiento humano desde la Edad de Piedra. En distintas tradiciones toman especial protagonismo en las ceremonias chamánicas, en las que representan y combinan figuraciones de animales (reales o fantásticos) junto a rostros humanos. El uso de máscaras zoomorfas a menudo tiene un significado totémico y mágico en la que el sujeto disfrazado asume la representación de fuerzas naturales, espíritus o la fuerza del propio animal. Para la mayoría de los pueblos primitivos las máscaras trascienden del mero objeto artístico o decorativo, y son consideradas instrumentos rituales; y están ligados la mayor parte de las veces a la danza, la música, los cantos y los atuendos. 

Estos «rituales de enmascaramiento» –no muy diversos de las celebraciones carnavaleras de nuestros días– provocan una suerte de transformación simbólica de la persona en el ser, ya sea animal o humano, que representa la careta. Hasta el punto de que se produce, a niveles sutiles, una clara identificación entre el sujeto portador de la máscara y lo representado en ella. Con mayor evidencia podemos advertir un fenómeno parecido en el travestismo ocasional, tan común durante los carnavales. Esta transfiguración que se produce a través del «enmascaramiento» se materializa «con todo el vacilón que se montan las mascaritas» escenificando, parodiando, imitando y gastando bromas, que a veces hace que el sujeto que representa un rol determinado se entregue a él de tal modo que haga parecer inseparable la percepción de lo real y lo teatralizado.  

La similitud de la «mascarada» con una representación teatral nos lleva a uno de los orígenes culturalmente más mediatos de las máscaras, a su función y significado. En el teatro griego los personajes eran caracterizados con grandes caretas de facciones y gestos resaltados con las que cubrían sus rostros. Estas máscaras tenían también la función de megáfono, con el que se amplificaba la voz durante la recitación. A ello obedece la etimología de la palabra «persona» (del latín persona, literalmente: ‘para sonar’, y esta del griego prósopon), que designaba tanto a ‘la máscara del actor’ como al ‘personaje’ [y de aquí deriva ‘persona’, ‘personalidad’, etc.].  Así es como la persona, el ser humano, guarda desde antiguo una relación con el transformismo y las máscaras. Y en este contexto, la máscara es apariencia, simulación engañosa y «mentira», pues no solo podemos ser burlados y engañados con palabras, sino también a través de objetos y atributos. Pero generalmente, la máscara se relaciona con esa fiesta pagana de origen incierto que es el Carnaval. En los países de tradición cristiana está relacionado con la liturgia religiosa, de hecho, el Miércoles de Ceniza pone fin a las celebraciones carnavaleras y da inicio a la Cuaresma (cuarenta días previos a la Pascua), un periodo de penitencia en el que la ortodoxia de las reglas impone el veto de la carne. La interdicción «carnal» comprende tanto el no comer carne como el abstenerse de los placeres carnales. Por ello, en cierto modo, el carnaval se percibe como una suerte de catarsis colectiva donde la actitud licenciosa, la relajación de las normas de comportamiento y la propensión a los deleites carnales se imponen de manera generalizada propiciadas por el «enmascaramiento» que hace entregarse a la desinhibición (como si a nivel subconsciente se tomase una revancha por el tiempo de abstinencia que está por venir).  

Con tales precedentes, quizá se entienda mejor el sentido de la expresión «te conozco, mascarita». Se trata de un dicho usual en las islas y en algunos países de América, y equivale en castellano al «te conozco, bacalao». Se suele expresar en tono de revelación o de sospecha y con cierto retintín. En sentido estricto quiere decir: «aunque te ocultes detrás de una careta, sé quién eres (y de que pie cojeas)». Se emplea como una especie de advertencia para dar a entender que se conocen las intenciones y el modo de actuar de alguien. Generalmente tiene un sentido negativo, pues el significado de la máscara es aquí el de guardar las apariencias y ocultar las verdaderas pretensiones. Se dice, pues, de la persona hipócrita, falsa, que simula o hace ver lo contrario de lo que se es, lo que llama al engaño, a ocular o enmascarar la realidad. Alguien que «cuando menos te lo esperas te pega una quintada». En sentido figurado puede entenderse como desenmascarar, descubrir, delatar. En sentido propio suele emplearse con el donaire festivo característico del carnaval para poner al descubierto la identidad de una mascarita a la que se reconoce o finge reconocer: «Te conozco mascarita». Pero también puede escucharse en forma interrogativa pronunciada indistintamente por el sujeto disfrazado dirigiéndose a quien no lo está, o viceversa, como una especie de sonsonete carnavalero: «¿Me conoces, mascarita?»

Tres piedritas en mi fogal y las estrellas del cielo no las atino a contar

Publicado en el suplemento de Cultura de La Provincia/DLP/El Día/La Opinión de Tenerife , sábado 8 enero 2022…

 Esta suerte de acertijo antiguo localizado en Tacoronte, Tenerife, rememora el hogar rural tradicional de una época. Las «tres piedritas» son los «tres teniques», que así se llaman a cada una de las piedras grandes que conforman el hogar o fogal. Sobre las que se sustenta la olla, el tostador o cualquier otro recipiente para la cocción de los alimentos. «Tenique» parece ser voz indígena que remonta su origen a las lenguas habladas por los antiguos canarios y a su vez tomada probablemente del bereber. El término «fogal» (‘hogar’) es probablemente un portuguesismo (similar a ‘fogalera’) que designa el lugar central en las antiguas viviendas, el punto de encuentro y de reunión entorno al fuego; lo que no en vano ha dado el nombre a la entera casa: el hogar. El término hogar trasciende así de la idea física de la propia estructura arquitectónica que sirve de hábitat para abrazar un sentimiento de pertenencia, acogimiento e identidad. La acogida de cada miembro de la familia que al crepúsculo de la tarde o «allá al solpuesto» se reúnen entorno al fuego a compartir vivencias. El mismo sentimiento nos reporta el recurso al diminutivo «tres piedritas», lo que transmite la sensación de afecto que se manifiesta por ciertas cosas y objetos materiales, y que nos recuerda aquella otra expresión antigua que exclama: «¡Ay, mi casa y mis tres teniques!», que antiguamente se pronunciaba con nostalgia cuando se regresaba al hogar después de una jornada de trabajo o un tiempo de ausencia. Estas expresiones que hoy forman parte de un gerontolenguaje en vías de desaparición, nos precipitan en un mundo rural que ya es casi parte del pasado. La imagen nos evoca a quien, extasiado, reposando frente a la lumbre, pierde su mirada en la danza de las llamas y el silencio, solo interrumpido por el crepitar del fuego mientras centellea. Y en el que uno queda absorto en sus pensamientos y en la fascinación que provocan la visión de las llamas.  El enigma contenido en el acertijo no deja de tener su enjundia. Por una parte, las imágenes contraponen y complementan una visión del microcosmos, del fogal y los tres teniques que, como realidad inmediata y tangible, cercana, circunscrita al ámbito doméstico es perfectamente identificable, y hasta cuantificable (tres piedritas). Este microcosmos tiene su reflejo en «las estrellas del cielo» que, como parte del cosmos o macrocosmos, realidad superior e inabarcable, resulta infinita y se pierde ante nuestra vista e imaginación (y «no se atinan a contar»). [En realidad, no tenemos la certeza que esta visión micro/macrocósmica exista como constructo o figura teórica así descrita entre los primitivos canarios. Estamos hablando, pues, de un conocimiento arcano de transmisión intergeneracional en la sociedad maga colonial, en este sentido no parecen nada despreciables los conocimientos astronómicos y una cosmovisión de los antiguos canarios, o quizá solo sea fruto de la pura intuición sapiencial del vulgo]. En este imaginario rural la idea de microcosmos del fogal nos recuerda asimismo que las «piedras de fuego», los teniques, y el fogal tienen un reflejo en lo alto, en el cosmos. Como si las centellas del fuego del fogal ascendiesen hacia el espacio sideral, retornando a su origen ancestral, como para fundirse con las estrellas del cielo en un espacio infinito.  

El que tiene padrino, no muere pagano

Hubo un tiempo en el que los grandes monoteísmos coexistieron con las llamadas religiones primitivas, periodo en el que los panteones paganos empezaron a ser suplantados poco a poco por los «nuevos dioses». A esta época es a la que –quizá– haga referencia y se sitúe imaginariamente el escenario que sugiere la metáfora que conforma este refrán. El origen de esta paremia habría que buscarlo, más concretamente, en un momento histórico en el que se implantaba la iglesia cristiana en Occidente frente a las «religiones paganas». Este proceso de cristianización forzosa, podríamos decir, arranca con el emperador Constantino hasta bien entrada la Edad Moderna, pasando por los reinos godos de la península, primero, y después por los reinos cristianos unificados y el territorio «recuperado» de Al-Ándalus, con la conversión de mozárabes, moriscos y judíos (judeoconversos). En clara referencia a esta época, aparece una versión del mismo dicho que se registra en la península y que dice: «el que tiene padrino, se bautiza, y el que no, se queda moro» (referida a la conversión de moriscos y mozárabes).

En sentido figurado, el dicho alude a las personas influyentes, de cierta autoridad y de una buena posición social,cercanas a las esperas de poder, que pueden echarte una mano cuando haga falta, así como a los recomendados que se benefician del patrocinio de aquellas. Y esto es precisamente lo que sugiere este registro que en versión isleña dice: «El que tiene padrino, no muere pagano», mientras que su sinónimo castellano se expresa de manera parecida: «quien tiene padrino, se bautiza». (Es de destacar que en las islas se ha adoptado una forma idéntica al proverbio en portugués: «Quem tem padrino nao more pagao», esto es, «el que tiene padrino no muere pagano»).

El dicho pivota sobre dos partes bien diferenciadas, una primera que sienta un presupuesto: «tener padrino», y una segunda parte que establece un resultado: «no muere pagano»; y en el que las voces «padrino» y «pagano» buscan la rima como recurso nemotécnico.«Padrino» [del latínpatrinus, derivado depatris, ‘padre’] en su origen posee una carga semántica religiosa, como institución prevista en la iglesia católica para referirse a la persona que presenta al «ahijado» al bautismo y que asume el compromiso de colaborar con los progenitores en la «educación espiritual» de aquel. De esta suerte de «parentela espiritual» que sitúa al padrino en el estatus de protector y colaborador en la crianza de un ahijado, es probable que por extensión semántica haya derivado en otro tipo de protecciones referida a la autoridad e influencias de quien despliega un trato de favor para obtener algo en beneficio del patrocinado, que es una de las acepciones que del término contempla elDiccionario.

Por su parte, «pagano» viene del latínpaganus, derivado de pagus que significa ‘pago’, ‘pueblo’ o ‘aldea’. De modo que pagano quiere decir’aldeano’, ‘campesino’; de cuyo término deriva «paganismo», referencia que probablemente tiene su razón de ser en la mayor resistencia de los pobladores de los campos y aldeas a abandonar los ritos paganos durante el proceso de cristianización. [Lo que explicaría a su vez la «reutilización» y «consagración» por parte de la iglesia cristiana de lugares «sagrados» del paganismo, tales como cuevas, montañas, rocas, árboles o fuentes, e incluso las propias divinidades paganas veneradas en estos lugares (ya sean masculinas o femeninas)eran sustituidas por sus «homólogos» en la nueva religión, todo ello al objeto de ganar y asegurarse la lealtad de los nuevos fieles]. Lo que en los dominios de la cristiandad serían los ‘gentiles’, que así se llamaba a las personas no bautizadas. Un pagano, pues, se refiere aquí a quien no ha recibido el sacramento del bautismo, que es una de las acepciones que mantiene elDiccionario. Y así se entiende mejor la diferencia formal entre la parte conclusiva del dicho en su versión castellana («se bautiza») y la empleada en las islas («no muere pagano»), es decir, «no muere sin bautizarse». Todo ello para expresar que el que está bajo la protección de una persona influyente («tiene un padrino»), con buenos contactos y conocencia para ayudar a que salga adelante el protegido («ahijado»), ese «no muere pagano», y tengan por seguro que no se queda desamparado, ya que se le abrirán muchas puertas y no le faltarán las recomendaciones para enchufarlo donde haga falta, y, en definitiva, no quedará «huérfano». Pero igualmente se advera a veces, como dice el antónimo del mismo refrán, que «el que no tiene padrino, [ese] muere pagano», porque como se suele decir, «algunos nacen con estrella y otros estrellados».

Al acebuche no hay palo que lo luche

Al acebuche no hay palo que lo luche 

Este aforismo genuinamente isleño hace referencia a las cualidades del palo de acebuche para la práctica de la «lucha con garrote».  El acebuche (del árabe hisp. azzabúg) u olivillo es un endemismo de Canarias presente en todas las islas. Se trata de un arbusto perteneciente a la familia de las oleáceas, una especie de olivo silvestre, del que no se aprovechan sus frutos, pero sí su madera. Ya los primitivos canarios la usaban para hacer fuego, para fabricar herramientas y utensilios, e incluso armas. Su madera es muy apreciada en la elaboración del «palo» o «garrote» para ejercitarse en este «arte de combate» que es el «palo canario» (además de para otros usos, como lo es el garrote del pastor). El dicho, que funciona a modo de superlativo, expresa la calidad suprema y los óptimos resultados de la «vara» obtenida a partir de una rama de acebuche. Pero esto exige un cuidadoso proceso de selección y una técnica de elaboración cuasi ritual que va desde elegir el palo (una rama bien derechita, del largo y grosor justos); cortarla con la luna y en la estación adecuadas (los expertos aconsejan con los fríos del invierno y con la luna en menguante); dejarla secar protegida del sol y de la humedad; enderezarla, con distintas técnicas rudimentarias pero eficaces,  y darle fuego para acabar de enderezarla y quitarle la cáscara (o ‘corteza’). La madera de acebuche que se caracteriza por su dureza y flexibilidad, después de este proceso –que puede durar hasta un año– gana en fortaleza y consistencia.  

«No hay palo que lo luche», asevera este dicho popular en una clara alusión comparativa a otras especies arbóreas de las que también se extraen los palos, como el escobón (otro endemismo de las islas cuya madera tiene fama por su dureza), el almendrero o el brezo, entre otros. Pero según la tradición popular, el acebuche las bate a todas por sus especiales cualidades de maleabilidad y dureza.  «Que lo luche» quiere decir, en sentido figurado, «que no hay quien se meta con él», «que no hay quien le haga sombra» porque es indiscutiblemente el mejor. Así existen una serie de máximas rimadas que se encargan de confirmarlo: «al escobón le dio un bofetón»; «al brezo y al escobeso (‘codeso’) le dio por los bezos»; «al almendrero le dio palos en el terrero»; «de la melosilla hizo astillas» o «al barbusano no le dejó un hueso sano». Lo que hace pensar en la importancia de la elección de la madera para la fabricación del palo como determinante para vencer en «combate». El «garrote» se denomina de diversas maneras según las islas: «palo», «lata», «asta», «vara», «lanza», etcétera. El palo canario o lucha del garrote es una técnica de combate de origen ancestral que era utilizada entre los antiguos canarios, aunque también podía tener un carácter lúdico en determinadas celebraciones, como mismo se da hoy en las islas y con otras prácticas similares de algunos lugares del continente africano. El enfrentamiento se practica entre dos luchadores y se trata de ganar al contrario valiéndose de un palo o garrote (que puede tener distintos tamaños y grosor según la costumbre de cada isla o la estatura del luchador). El palo sirve tanto de instrumento ofensivo, para acertar golpes al rival, enganchar o «clavar» el palo, como de arma defensiva, evitando o parando golpes o «varillazos». Los gestos o movimientos de defesa y ataque se conocen como «braceo» y «mudar las manos», mientras que las «trabas» o «zapatas» son lances para tratar de derribar al contrario.  Además de una depurada técnica, este juego tradicional exige gran agilidad, fuerza y reflejos en los luchadores. Pero el aforismo parece atribuir todo el mérito del triunfo a las «armas de combate» utilizadas más que a la destreza y habilidad en su uso. Como si mismo emularan las historias de cuchilleros de Borges, en cuyos duelos contaban más las armas que los hombres. Sobre todo cuando estas habían pertenecido a gauchos célebres [«Eran cuchillos que en su manejo se habían hecho famosos»; El encuentro, Borges]. Pero el dicho «al acebuche no hay palo que lo luche» no es más que una expresión hiperbólica para hacer valer que el mejor palo para esta práctica es el de madera de acebuche, dada su fortaleza, resistencia y la agilidad que procura en su manejo que, si bien no aseguran la victoria, al menos, pueden contribuir a un buen resultado en la contienda.